Stili di Vita e Salute Mentale: un problema culturale e (anche un pò) politico.

 

Quando si parla di salute, spesso ci si concentra sugli stili di vita. Se la salute è condizionata dagli stili di vita, pensiamo, è su questi ultimi che dobbiamo agire, modificandoli o correggendoli, per permettere alle persone di beneficiare del miglior stato di salute, anche mentale, possibile. Se le cose fossero così semplici però, nessuno fumerebbe più, l’obesità non costituirebbe più un’emergenza, né l’alcol un problema. Come mai è così difficile cambiare gli stili di vita? E se fossero altri i fattori da considerare per permettere alle persone di avere un senso di padronanza della propria vita?

 

 

 

Proviamo a prendere in considerazione uno dei molti decaloghi contenenti indicazioni rispetto agli stili di vita sani da adottare. Queste sono le dieci regole d’oro per stare bene in salute 1999, prodotte dal Chief Medical Officer in Inghilterra.

 

 

1. Non fumare. Se puoi, smetti. Se non ce la fai, riduci.

 

2. Segui un’alimentazione bilanciata, ricca di frutta e verdura.

 

3. Mantieniti attivo fisicamente.

 

4. Controlla il tuo stress, ad esempio parlandone oppure ritagliandoti del tempo per rilassarti.

 

5. Se bevi alcol, fallo con moderazione.

 

6. Copriti quando sei al sole e proteggi i bambini dalle scottature.

 

7. Adotta abitudini sessuali sicure.

 

8. Aderisci alle opportunità di screening oncologico.

 

9. Guida in maniera sicura, rispetta il Codice della Strada.

 

10.Impara le procedure essenziali del pronto soccorso: vie aeree, respiro, circolazione.

 

 

Facile no?

 

Benissimo ora proviamo a considerare solamente uno di questi punti, anche se quanto vedremo vale per ciascun punto di questo illuminante decalogo. In particolare proviamo a considerare il punto 3: “Mantieniti attivo fisicamente”.

 

La scelta è semplicemente guidata dall’evidenza relativa alla ormai robusta correlazione riscontrata da molti studi tra tra benessere fisico, attività fisica e salute mentale. L’attività fisica sembra avere un valore letteralmente vitale. Mei Sui, una ricercatrice della University of South Carolina nello stato di Columbia negli Stati Uniti ha evidenziato infatti in un recente studio che “una buona capacità cardio-respiratoria – ottenuta attraverso una moderata attività fisica di 30 minuti al giorno – può ridurre del 50% la mortalità per tutte le cause di morte di chi soffre di depressione” sottolineando che “questa forte correlazione inversa tra un corretto stile di vita e il disagio emotivo dovrebbe essere presa in considerazione per creare strategie a supporto dei pazienti con ansia o depressione” (Sui, Xuemei, et al. 2017).

 

I tre principali mediatori di questa relazione (biunivoca) tra attività fisica e salute mentale sono Dopamina (DA), Noradrenalina (NE), e Serotonina (5-HT), cioè i principali neurotrasmettitori attivati dall’esercizio fisico i quali rivestono un ruolo cruciale anche in molte condizioni di sofferenza mentale. L’utilità dell’attività fisica è ormai tanto consolidata all’interno dei servizi di salute mentale da aver spinto in questi anni il NHS, il Sistema Sanitario Inglese, a strutturare la possibilità di diversi programmi sportivi organizzati dalla Mental Health Foundation, finanziati in gran parte dal Dipartimento della Salute. In questo modo, oltre, e talvolta per evitare, una prescrizione medica e farmaceutica inappropriata, è possibile che i cittadini ricevano dal proprio medico curante o dal proprio psicologo la prescrizione di svolgere attività fisica presso uno dei centri convenzionati.

 

Ma facciamo un passo indietro.

 

Per mantenersi in salute è necessario mantenersi attivi fisicamente, e questo vale anche per la salute mentale.

 

Provando ad allargare un po’ il nostro sguardo appare chiaro che se vogliamo mettere le persone nella condizione di cambiare i propri stili di vita è necessario agire anche sui contesti di vita. Concretamente, ad esempio, l’OMS con le proprie indicazioni ci ricorda (WHO, 2008) l’importanza che riveste una corretta pianificazione dell’ambiente al fine di creare concrete e reali opportunità per i cittadini. In questo caso la responsabilità della creazione di contesti “capacitanti” (Sen, 1999) che permettano agli individui che li abitano di essere realmente liberi di scegliere responsabilmente, ricade sui decisori politici e sui pianificatori.  E’ riduttivo considerare gli stili di vita individuali come slegati dai contesti in cui questi stili di vita emergono, vengono mantenuti, e talvolta alimentati. Per dirla semplicemente, sarebbe bizzarro prescrivere agli individui di giocare a calcio in assenza di un contesto facilitante che consenta loro di farlo.

 

Quando si parla di contesti capacitanti appare rilevante sottolineare che non ci si riferisce esclusivamente ai contesti fisici ma anche ai contesti sociali, economici, culturali e politici.

 

Non sembra avere senso chiedere di bere più acqua a chi vive nel deserto o in un ambiente in cui manchi l’acqua potabile; prima bisogna creare le condizioni perché possa bere. Ancor meglio sarebbe evitare, a monte, che alcuni individui si trovino a dover abitare in contesti in cui manchi l’acqua potabile mentre altri utilizzino acqua potabile anche in misura superiore ai propri reali bisogni. Rispetto alla salute mentale, ad esempio, in una prospettiva di sanità pubblica, appare quasi ridicolo istituire delle politiche di riduzione del danno da dipendenza, affiggere locandine di programmi di prevenzione e sul gioco consapevole se i contesti in cui gli individui vivono creano, alimentano e mantengono le condizioni perché tale dipendenza si manifesti a monte e sia mantenuta a valle.

 

Ma torniamo allo stile di vita legato all’attività fisica perché l’osservazione della dinamica relativa a questo particolare stile di vita permetterà di mettere a fuoco alcuni elementi che sarà possibile generalizzare alla quasi totalità degli altri stili di vita. Se andiamo a cercare nei contesti reali, nel mondo, chi sono le persone che svolgono regolarmente più attività fisica? Quali persone hanno uno stile di vita sano, attivo fisicamente, quindi correlato anche ad una buona salute mentale? E chi sono invece i fannulloni che non si riescono a muovere per uscire dal loro stato di inoperosa oziosità?

 

La risposta all’ultima domanda è drammaticamente semplice: le persone svantaggiate. Utilizzando il reddito come indicatore di svantaggio sociale, gli individui con basso reddito (con un basso status socioeconomico, SES) hanno minori probabilità di soddisfare le linee guida dell’attività fisica rispetto alle persone con una migliore posizione sociale. Questo è quanto emerge da un articolo da poco pubblicato su Preventive Medicine 2017. Kerem Shuval, direttore della ricerca sull’attività fisica e sugli stili nutrizionali presso l’American Cancer Society di Atlanta, insieme ai suoi collaboratori ha esaminato i dati del reddito e l’attività fisica di 5.206 adulti invitati ad indossare degli accelerometri per tenere traccia, per una settimana, dei loro movimenti durante le ore di veglia. Lo studio ha evidenziato che, rispetto alle persone che guadagnavano meno di 20.000 dollari all’anno, gli individui che con reddito di 75.000 dollari l’anno avevano maggiori probabilità di soddisfare le linee guida sull’esercizio fisico: le persone più ricche, durante tutta la settimana mostravano maggiori probabilità di rispettare le linee guida trascorrendo 4.6 minuti in più al giorno in media facendo dell’esercizio moderato o vigoroso. “Questo significa aggiungere fino a più di 30 minuti di esercizio in una settimana, abbastanza per fare una significativa differenza nella salute”, dice Shuval. La possibilità di svolgere regolarmente esercizio fisico sembra essere condizionato da moltissimi fattori: la maggior disponibilità di tempo libero, la disponibilità economica necessaria per acquistare il materiale o pagare un/a baby sitter e più in generale alla disponibilità di capitale economico, sociale, culturale o simbolico, la  volontà di distinguersi e differenziarsi da una classe sociale identificandosi in un’altra, vissuta come “oggettivamente” più “alta” (vedi Bourdieu, in “La Distinzione, critica sociale del gusto”, 1983).

 

La correlazione tra stili di vita sano e posizione sociale è molto robusta.
Al variare della posizione sociale corrisponde una variazione degli stili di vita: più saliamo nella gerarchia delle posizioni sociali, più possibilità abbiamo, in media, di trovare gruppi sociali composti da persone che adottino uno stile di vita più sano del gruppo immediatamente meno avvantaggiato. Anche gli stili di vita tendono a disporsi lungo un gradiente sociale.

 

Nel recente Rapporto l’Italia per l’Equità nella Salute curato dall’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e il contrasto delle malattie della povertà (INMP) il quadro emerge in maniera chiara. L’indicatore di posizione utilizzato qui è il livello di istruzione: “nel nostro Paese, a parità di età, molti degli stili di vita malsani sono in genere più frequenti tra i meno istruiti. Solo il 13% delle persone con alta istruzione fuma, percentuale che sale al 22% tra coloro che hanno frequentato al massimo la scuola dell’obbligo. Analogamente, solo il 7% di chi ha un titolo di studio elevato è obeso e il 52% è sedentario, contro il 14% e il 72% rispettivamente tra i meno istruiti. Lo stesso può dirsi del consumo inadeguato di frutta e verdura, ossia al di sotto delle 3 porzioni giornaliere, soglia non raggiunta dal 41% dei più istruiti, a fronte del 58% dei meno istruiti. Solo per l’abuso di alcol non sembrerebbe evidenziarsi una differenza statisticamente significativa tra i diversi livelli di studio (5,5% per l’alto e 7,3% per il basso)”.

 

Se appare evidente nei discorsi dominanti quanto la salute sia legata agli stili di vita, appare doveroso ricordare quanto gli stili di vita non rappresentino tanto il risultato di una libera scelta ma siano condizionati dalle possibilità e dalle opportunità di cui gli individui dispongono. Per alcune persone l’adozione di stili di vita insalubri non costituisce l’esito di una scelta quanto la conseguenza di un vincolo (Cardano, 2008) che si crea nell’interazione tra la persona e l’ambiente sia fisico che sociale che questa abita; ogni ambiente è caratterizzato da un insieme di vincoli e opportunità.

 

Riprendendo Marmot (2016) possiamo affermare senza timori che “le buone condizioni di vita, le cose che realmente contano sono distribuite in modo disuguale, molto più di quanto sia accettabile. Il risultato di una distribuzione disuguale delle occasioni di vita è che la salute si distribuisce in modo disuguale”.

 

 

Possiamo allora provare ad ampliare la nostra attenzione e, includendo i determinanti sociali della salute, provare a riformulare un nuovo e più comprensivo decalogo della salute. Per farlo utilizziamo il decalogo creato dall’Università di Bristol:

 

1. Non essere povero. Se puoi, smetti. Se non ci riesci, cerca di non essere povero per molto tempo.

 

2. Non vivere in un’area deprivata. Se puoi trasferisciti altrove.

 

3. Non essere disabile o non avere un figlio disabile.

 

4. Non fare un lavoro malpagato, manuale e stressante.

 

5. Non vivere in una casa umida, di bassa qualità, o non essere un senza tetto.

 

6. Sii in grado di pagarti attività sociali e vacanze annuali.

 

7. Non essere un genitore solo.

 

8. Richiedi tutti i benefici cui hai diritto.

 

9. Sii in grado di possedere un’auto.

 

10. Sfrutta l’istruzione per migliorare la tua posizione socioeconomica.

 


Questo decalogo ci permette di osservare con chiarezza quanto la visione dominante delle salute, anche mentale, addensi la propria narrazione sul tema delle responsabilità individuali. La narrazione egemone, in cui ogni individuo viene descritto come libero di realizzare se stesso, enfatizza la salute come scelta e in un’opera di moralizzazione stigmatizzante sembra colpevolizzare chi non vuole liberarsi da quelle che sono considerate le cattive abitudini di vivere, pensare, sentire, agire. In questa narrazione scompaiono i fattori contestuali distali, i determinanti sociali della salute, quei fattori responsabili della stratificazione della società che distribuiscono in virtù della propria posizione sociale un disuguale controllo sulla propria vita e un’iniqua disponibilità di risorse di status, economiche e di aiuto. Nella società disuguale insieme a questi fattori sembrano scomparire anche le responsabilità politiche e morali a monte, lasciando emergere, nei discorsi collettivi quasi esclusivamente quelle individuali.

 

Tali responsabilità individuali rischiano di diventare ancor più grandi se, nel mercato, continuano a fiorire nuovi operatori della salute, come i lifestyle trainer, in grado di poter accompagnare ciascuno verso l’obiettivo che si prefigge di raggiungere, definitivamente congedando qualsiasi possibilità di rivendicazione sociale e politica collettiva. Quale ruolo ha il Mental Coach se non aiutare l’individuo atomizzato a vivere meglio, essere più felici, e realizzare il maggior livello personale e professionale? Molto spesso però una certa psicologia individualista presta il fianco alle medesime modalità. La mercificazione della salute, vissuta come proprietà individuale che è possibile acquistare al mercato dei beni di consumo, facilita questo processo, aiutando i cittadini a diventare consumatori e imprenditori di sé stessi, tutti ruoli essenziali nel meccanismo capitalistico del mercato neoliberista.

 

Abbiamo visto quanto sia importante svolgere regolare attività fisica per proteggere la propria salute mentale.

 

Sappiamo quanto sia importante per tutti, anche ai fini di un benessere psicologico, una corretta alimentazione: sono ormai moltissime le evidenze circa l’importanza dell’intestino, un “secondo cervello”.

 

Sappiamo quanto sia importante dormire tanto e bene come ricordano i premi nobel Jeffrey C. Hall, Michael Rosbash e Michael W. Young e tutti gli studi sulla qualità del sonno come predittore dell’insorgenza di depressione, ansia ma anche Alzheimer.
Conosciamo la dannosità di un certo consumo dell’alcol per la salute mentale, la dannosità del Gioco da Azzardo e l’importanza che prezzo, disponibilità, marketing e percezione di costi e benefici rivestono nell’influenzare fortemente la scelta di consumare o no prodotti nocivi alla salute (Moodie, 2013). E sappiamo anche bene quanto poco la psichiatria internazionale (e con questa la psicologia) si sia impegnata, nel momento in cui era necessario, per l’adozione di politiche che potessero realmente tutelare la salute dei cittadini, al di là delle responsabilità individuali.
Conosciamo il fattore di rischio rappresentato dall’assenza di un abitazione e dall’abitare in zone segregate con alto tasso di violenza.
Conosciamo l’importanza del lavoro e del tempo libero e del loro importante impatto sulla salute. Ce lo ricorda la Carta di Ottawa: “il lavoro e il tempo libero dovrebbero essere una fonte di salute per le persone e che il modo in cui la società organizza il lavoro dovrebbe contribuire a creare una società sana”. Eppure molto spesso anche i discorsi relativi allo stress lavoro correlato si focalizzano sulla capacità del singolo di fare fronte agli ambienti stressanti. Quando si parla dello stress legato alle cattive condizioni lavorative, quando non della disoccupazione, il discorso sembra ciclicamente cascare sulla buona volontà del singolo, sulla sua maggior o minor adeguatezza nel realizzare se stesso adattandosi acriticamente all’immobilità che caratterizza il contesto sociale (Franzini Raitano, 2015) e alle crescenti ingiuste disuguaglianze (Atkinson, 2015).

 

Eppure continuiamo a rimanere ancorati ai nostri modelli di intervento.

 

Concludiamo riprendendo uno stralcio di un articolo pubblicato su saluteinternazionale di Stefanini il quale sottolinea che, a fronte di queste evidenze “Piuttosto che investire nei requisiti per una buona salute per tutti, come reddito, abitazione, cibo, coesione sociale, ecc. ossia i determinanti sociali della salute, il quadro di riferimento neo-liberista è saldamente ancorato all’approccio dello stile di vita individualizzato. In questo modo, ciò che andrebbe visto come un problema sociale, un fallimento dello Stato e della società, ora deve essere inteso come una sconfitta del singolo individuo, una questione di responsabilità personale. Disoccupazione, povertà o mancanza di istruzione sono ridefinite come errate scelte personali di cittadini che hanno liberamente compiuto la loro scelta. […] È evidente che il modo in cui si parla della salute nelle società neoliberali contemporanee riflette e rafforza questa ideologia politica. L’agenda neo-liberista dello Stato minimale e di mercati con poche o senza regole, e, allo stesso tempo, un corpo sociale composto di cittadini attenti alla propria salute, ma consci dell’inevitabilità delle disuguaglianze, diventa così la rappresentazione della società “sana”.”

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Atkinson, A. B. “Disuguaglianza.” Che cosa si può fare, Milano, Raffaello Cortina Editore (2015).

 

Bourdieu, Pierre, and Guido Viale. La distinzione: critica sociale del gusto. Il mulino, 1983.

 

Cardano, Mario. “Disuguaglianze sociali di salute. Differenze biografiche incise nei corpi.” Polis 22.1 (2008): 119-146.

 

Cooney, Gary, Kerry Dwan, and Gillian Mead. “Exercise for depression.” Jama 311.23 (2014): 2432-2433.

 

Franzini M., Raitano M. (2015) Income Inequality in Italy: Tendencies and Policy Implications. In: Strangio D., Sancetta G. (eds) Italy in a European Context. Palgrave Macmillan, London

 

Kerem Shuval, Qing Li, Kelley Pettee Gabriel, Rusty Tchernis, Income, physical activity, sedentary behavior, and the ‘weekend warrior’ among U.S. adults, Preventive Medicine (2017)

 

Marmot M.; La salute disuguale, Il Pensiero Scientifico Editore, 2016

 

Moodie R, Stuckler D, Monteiro, Sheron N, Neal B, Thamarangsi T, et al. Profits and pandemics: prevention of harmful effects tobacco, alcohol, and ultra-processed food and drink industries. Lancet 2013; 381: 670-9

 

Sen, Amartya. “Commodities and capabilities.” OUP Catalogue (1999).

 

Sui, Xuemei, et al. “Cardiorespiratory Fitness and All-Cause Mortality in Men With Emotional Distress.” Mayo Clinic Proceedings. Vol. 92. No. 6. Elsevier, 2017.

 

World Health Organization. “A healthy city is an active city: a physical activity planning guide.” Copenhagen: WHO Regional Office for Europe (2008).

 

 

 

 

SITOGRAFIA:

 

http://www.saluteinternazionale.info/2015/09/stili-di-vita-la-ricetta-neo-liberista/

 

 

Articolo originale: http://www.sportellotiascolto.it/salute-mentale-e-stili-di-vita/